Cina, corsa all’oro nero

« Older   Newer »
  Share  
view post Posted on 15/11/2011, 08:05
Avatar


Group:
☆ ADMIN ☆
Posts:
74,822
Location:
Perla Nera

Status:


Pechino aumenta gli armamenti navali, gli altri paesi asiatici fanno pressione su Washington
E’ in corso, alle Havaii , il vertice dell’Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation) che riunisce le maggiori economie che si fronteggiano nell’area del grande oceano dalla Russia, alla Cina al Giappone per finire all’Australia. Non mancano ovviamente gli Stati Uniti. La prima giornata di lavori ha avuto come protagonista il Presidente Obama. Ufficialmente si è parlato del disaccordo tra Stati Uniti e Cina sulla rivalutazione dello yuan, ma dalle indiscrezioni trapelate dall’entourage del Presidente americano, sono affiorate preoccupazioni ben più importanti e che riguardano le regole della convivenza internazionale non sempre, a parere degli Usa, osservate dal governo cinese.
Una problematica che rischia di incancrenirsi è quella dei rapporti tra Cina e Paesi asiatici che si affacciano sul Mare Cinese Meridionale. Prima di mettere piede sul scaletta dell’aereo che portava il segretario di Stato Usa da Washington ad Honolulu, Hillary Clinton aveva sottolineato quanto era stato discusso tra lei e il suo collega di Pechino in preparazione del vertice Apec: “Il ritiro delle forze da Afghanistan e Iraq ci consentirà un maggiore impegno nella regione Asia-Pacifico”.
L’avvertimento non era stato casuale. Washington è sotto pressione in questa area dalle rimostranze anti-cinesi di Vietnam, Malesia, Brunei e Filippine, quattro stati che si affacciano sul Mar Cinese Meridionale, una specie di mare interno, rispetto al Pacifico, ricco di arcipelaghi che lo circondano e con fondali relativamente bassi che, secondo gli esperti locali e internazionali, hanno un potenziale energetico nascosto pari a 7000 miliardi di metri cubi di gas naturale e a 100 miliardi di barili di petrolio che fanno molto gola al governo di Pechino.
Nelle cancellerie locali si fa strada l’idea che prima o poi le ricriminazioni dei vari stati coinvolti potrebbero finire in scontri anche militari. Se questa deriva fosse inevitabile potrebbe anche concretizzarsi in un vero e proprio conflitto: una devastante guerra ai confini del Pacifico per la conquista di una nuova ricchezza petrolifera.
I rischi non sono soltanto ipotetici. Le prime avvisaglie sono già in atto. Dal 2001 ad oggi le autorità vietnamite hanno già rilevato 11 oscuri ’incidenti navali’ nel Mar Cinese Meridionale. Nel maggio scorso la compagnia nazionale Petro Vietnam ha sostenuto che navi cinesi hanno molestato e danneggiato alcune sue piattaforme petrolifere. Brunei e Malesia, paesi ricchi di gas naturale, sono sempre più preoccupati per la presenza nel loro mare di flottiglie cinesi da pesca o commerciali.
Questo insieme di timori ha avuto un’impennata il 10 agosto scorso, quando dal porto di Dalian ha preso il largo la prima nave portaerei della storia navale cinese. Con la scusa del collaudo in mare, la Varyag (questo è il nome dell’unità) si è posizionata nei pressi degli arcipelagi Spratly e Paracel contesi anche da Filippine, Malesia e Brunei per le potenzialità in idrocarburi dei loro fondali. La presenza della nave ha preoccupato, da subito, gli americani. Dalle rilevazioni satellitari il Pentagono ha individuato altre due portaerei in costruzione in Cina e di dimensioni maggiori della neo-varata, che è soltanto il riadattamento di una vecchia unità russa. A questi movimenti gli esperti hanno aggiunto la messa in acqua di un nuovo sottomarino diesel, molto silenzioso, dotato di missili con una gittata di 8.000 chilometri, ma armabile anche con missili più leggeri da 1.500 chilometri per navigare, all’occorrenza, in acque meno profonde, che sono poi quelle più consone alle sue mire petrolifere.
Il lento approccio ai fondali interessati è, purtroppo, di difficile contrasto a causa di una convenzione Onu, sottoscritta nel 1982 ( a quella data i ritrovamenti di gas e petrolio erano ancora nella incertezza esplorativa) che tuttora regola le attività marinare locali definite ’Zona ecomica’ (Ecz) per i Paesi che hanno un confine marittimo di 200 miglia, distanza che interessa, guarda caso tutte e sei le nazioni coinvolte, Cina compresa. Infine, e non è cosa da poco, spaventa la corsa agli armamenti di Pechino con una spesa in crescita esponenziale. Non avendo nemici alle porte, potrebbero significare il sogno di una espansione imperiale di Pechino nelle aree che le sono più vicine.
Va da sé che alla crescita del Pil cinese e alle sue ambizioni è sempre più indispensabile il petrolio. E qui i timori non sono soltanto ipotetici. La Cina ha importato, nel 2010, petrolio per un totale pari all’intero consumo di greggio dell’Europa (esclusa la Russia). Questo fiume di oro nero previene dall’Africa che si affaccia sul l‘Atlantico (Nigeria e Angola) e sul Pacifico (Mozambico e Sudan), dai giacimenti arabi e dall’Iran.
Nei suoi mari Pechino è riuscito a sviluppare produzioni interessanti, ma non decisive. In un ventennio, con la collaborazione di compagnie internazionali (vi figura, con una buona presenza pionieristica, anche l’Eni in giacimenti marini a Sud-Est di Hong-Kong) non si sono fatti progressi veramente significativi. In terra ferma i risultati sono stati ancor più modesti. L’Eni, ad esempio, alla fine degli anni Novanta ha rinunciato alle ricerche di gas naturale nella regione del Sinkiang per la scarsa presenza delle riserve ipotizzate in aree in apparenza ricche di metano.
La corsa al controllo dei fondali del Mar Cinese Meridionale è dunque, per Pechino, fondamentale. Ma la decisione degli altri Paesi rivieraschi di difendersi in qualsiasi modo, magari coinvolgendo gli Stati Uniti, da un rinnovato impero cinese, è altrettanto fondamentale. Si dice che Ho Chi Minh, prima di morire, abbia detto ai suoi “ Io posso accettare per qualche anno ancora il maleodore della merda francese, ma non accetterò mai di mangiare quella cinese”.

Fonte
 
Top
0 replies since 15/11/2011, 08:05   1 views
  Share