La cura e la psicosi, Osservazioni

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view post Posted on 3/5/2010, 20:21
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La direzione della cura fa ovviamente i conti con la diversità, la particolarità di ogni paziente, di ogni analizzante: le variabili, neanche a dirlo, sono infinite: vicende familiari, genere sessuale, età, cultura, ecc.

Ciascun paziente è unico, come del resto ciascun analista



La struttura determina la configurazione che l’inconscio del soggetto assume, delineando le linee di forza attraverso cui il suo desiderio inconscio si manifesta.
La diagnosi fornisce all’analista le coordinate essenziali entro cui sviluppare la sua azione, a cominciare dalla gestione del transfert.
Se la struttura determina l’essere del soggetto, è con questo essere che l’analista è chiamato a fare i conti nel dirigere la cura.
La Klein ritiene che, nelle prime fasi di sviluppo, il soggetto attraversi due posizioni: quella schizoparanoide e quella depressiva.
La psicosi isola un modello di funzionamento psichico equivalente ad altri, a tal punto che la personalità psicotica finisce per definire una condizione, uno stato mentale, che convive nel soggetto con uno stato non psicotico.
La psicosi rileva un debito di autonomia nei riguardi della nevrosi.
La continuità tra nevrosi e psicosi ruota complessivamente attorno a due presupposti di base. Il primo è quello della reversibilità. La psicosi fotografa, illustra una condizione, uno stato di malessere che è sopraggiunto al soggetto a causa di particolari situazioni. Per il secondo, la natura della psicosi è tendenzialmente espletata attraverso un accostamento per via analogica.
Lo psicotico rimane nella sospensione di un incompiuto, di un non ancora, cui solo l’appello alla normalità sembra restituire dignità.
Per Lacan nessuna contaminazione è prevista tra la prima e la seconda.
La normalità dello psicotico non è commisurabile con la normalità. Lo psicotico non è, né sarà mai, un nevrotico.
Contrariamente al nevrotico, lo psicotico non ha problemi: è il problema.
Il vuoto che sovente lo attraversa è una mancanza che non può essere identificata. A differenza della nevrosi, non sussiste un ritorno del rimosso.
In altre parole, lo psicotico soffre di quel che ritorna come un mondo concreto e invivibile nella realtà quotidiana esterna.
Non si può nemmeno parlare di debolezza dell’Io: il folle, più di ogni altro, crede all’Io, solo all’Io.
Lo psicotico non ha dubbi, sa già. Più precisamente, sa già prima ancora di poter conoscere. Il suo sapere anticipa la conoscenza al punto di identificarsi con essa.
Per Lacan, trattare clinicamente uno psicotico come se fosse un nevrotico implica rischi notevoli quali lo scatenamento di una crisi, oppure la stimolazione di possibili passaggi all’atto.
L’impedimento del soggetto psicotico ad accedere alla significazione fallica e al desiderio comporta il venir meno di 3 generi di interventi.
Il primo è quello dell’isterizzazione, o della cosiddetta paranoia indotta: l’analista lavora, soprattutto nella fase iniziale, per sospendere le certezze su cui il nevrotico si appoggia a che gli sbarrano la strada a una comprensione effettiva e approfondita dei suoi sintomi. Lo scopo dell’analista è far sorgere un interrogativo.
Lo psicotico è già immerso in parole che lo frastornano. La linea di demarcazione tra conscio e inconscio è mal disposta, non regolata, in assenza della rimozione.
Il sapere, per quanto folle sia, è dunque pertinenza dello psicotico che, grazie a esso, legge e interpreta ciò che gli accade senza freni inibitori.
Se il folle dice sempre la verità, anzi la grida, è perché sente la necessità, quasi fisica, di urlarla, di gettarla fuori, mentre è lui stesso a non saperla gestire.
Il delirio è dunque la sua interpretazione: la sua immaginarizzazione di quel che gli altri possono vedere da lui.
Per Lacan, con lo psicotico, il compito dell’analista si tratta di evitare di lasciare il folle alla sua solitudine, accogliendo la sua dolorosa testimonianza.
Se il sapere dello psicotico si offre come un prodotto già costituito non è il caso di opporgli un altro sapere, più analiticamente fondato, o più normale.
La sua sofferenza cerca un interlocutore attento e umanamente partecipe che sappia ricevere il suo messaggio, per quanto folle sia.
Concludendo, segnaliamo due tratti essenziali che ci sembra possano definire ulteriormente tale posizione.
Il primo è relativo alla presenza, tanto costante quanto discreta, che l’analista è chiamato a esercitare; il secondo attiene alle capacità dell’analista di sostenere nel paziente un’economia di soddisfazione che gli permetta di non rompere i legami con il mondo, rinchiudendosi autisticamente su se stesso.
Lo psicotico mostra infatti la sua profonda fragilità: il non riuscire a destreggiarsi anche in situazioni all’apparenza semplici o scontate.
L’analista può incoraggiare, via transfert, la costruzione di oggetti in grado di catalizzare un godimento non passivo del soggetto.
Il lavoro dell’analista è quello di permettergli una parola che animi la soggettività, che apra una fessura attraverso la quale anche lo psicotico possa dire e dirsi per chi sa e vuole ascoltare.
 
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