Il transfert e l’analista

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view post Posted on 28/4/2010, 16:49
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Il transfert rileva, nel bene e nel male, il potere di cui l’analista dispone. Due problematiche si legano ad esso: la prima riguarda la sua gestione, la seconda riguarda la posizione che l’analista deve tenere nel corso della cura.
Il transfert in quanto attribuzione di potere dell’analista, comporta per l’analista stesso una duplice implicazione: da un lato ne limita la libertà, dall’altro la translazione introduce la libertà non dell’analista ma per l’analista, proprio in quanto l’assunzione del ruolo impostogli dall’inconscio del paziente gli permette di intervenire nella cura facendo leva su di esso.
Il cattivo trattamento della domanda nutre il fossilizzarsi della dipendenza del paziente. La cura diventa allora lo spazio entro cui la dipendenza, invece di essere lavorata, risulta constantemente
Perpetrata.

Il transfert, dice Lacan, è anche suggestione.



Ma ciò non significa che l’analista debba ricorrere ad essa per rapportarsi con il paziente. In un certo senso, saremmo tentati di tradurre la suggestione con un modo altamente deduttivo di trattare la domanda. Dimenticando così, o facendo finta di dimenticare, che la domanda, ogni domanda. Trascina sempre con sé una buona dose di falsità.
Il buon uso del transfert ha un nome che ci riporta all’interno della clinica analitica, e non fuori da essa, che è quello di prassi.
La prassi analitica è il vero antidoto alla degenerazione transferale.
L’abuso di quest’ultimo non significa l’uscita dalla logica e dall’etica analitica.
Per Lacan la direzione della cura consiste anzitutto nel far applicare al soggetto la regola analitica; ciò che si chiama situazione analitica non può essere misconosciuta col pretesto che il soggetto le applicherebbe meglio senza pensarci.
La gestione del transfert nei termini della prassi analitica richiede uno sforzo di precisione e puntualizzazione ulteriore, più approfondita.
Per Freud la cura analitica dev’essere effettuata in stato di privazione, di astinenza.
L’analista non deve approfittare del transfert per un proprio vantaggio.

Conseguenza: deve astenersi.



Per astinenza non si deve intendere la privazione di ogni soddisfazione, bensì qualcosa di diverso, che ha molto più a che fare con la dinamica della malattia e della guarigione.
L’isteria, ancora una volta, fornisce l’occasione per un’articolazione più ampia e approfondita del problema. L’ascolto del soggetto isterico mostra come al fondo della sua tematica ai agiti, spesso teatralmente.
L’isterico si lamenta dei suoi mali, platealmente, senza freni inibitori, anzi, talvolta parrebbe con un certo compiacimento. Dichiara di voler conoscere l’origine dei suoi sintomi, di volerne sapere, insomma. Ma è poi cosi?
Certo l’isterico vuole sapere. Ma, nel momento dell’entrata in cura, non fa altro che erotizzare deduttivamente la sua richiesta, ponendosi lui stesso come ambiguo oggetto di sapere per l’altro.
Il cosa vuole dell’isterico traduce, o se vogliamo, tradisce il come gode del soggetto, cioè il rapporto che questi intrattiene con il godimento: esso coinvolge direttamente l’analista, sino a mettere in gioco la possibilità che questi eserciti un’effettiva direzione della cura.
Il desiderio pressante di Freud è il desiderio che l’isterico guarisca.
Il desiderio di Freud è la causa prima della resistenza del terreno fecondo su cui si appoggia e si rinforza il desiderio isterico che non ha che un’ambizione: essere il desiderio o l’oggetto del desiderio dell’altro.
È la lezione dell’isteria a imporre, dunque, l’astinenza dell’analista.
Il concetto di astinenza sembra in tal senso, soprattutto dopo Freud, mostrare il suo limite.
Il controtransfert sembra voler rimediare su un terreno emotivo alle ristrette e ipocrite gabbie in cui l’astinenza sembrava imprigionare la persona dell’analista.
Il controtransfert in Freud era solo l’insieme dei residui di non analizzato che permangono presso l’analista: materiale in un certo senso estraneo all’analista e a ciò che dovrebbe orientare la sua prassi, ma che tuttavia rimane nel suo inconscio.
Residui che ci sono, ma di principio, che non dovrebbero esserci, poiché avrebbero dovuto essere, a suo tempo, analizzati.
Può essere in tal senso utile distinguere un uso estensivo, ampio, indiscriminato di questa nozione, fa uno più intensivo, preciso e forse mirato. Il primo tende infatti a coprire la gamma dei sentimenti che animano l’analista nei riguardi del paziente. Per Heimann, assume il valore di una vera e propria rivelazione.
La neutralità analitica, sorella dell’astinenza, lascia ben presto il cammino ad altre rivendicazioni, entro cui si confondono, fino all’indistinzione, bisogni sorti nella clinica e bisogni individuali: emergono pian piano altri valori analitici, quali la partecipazione, il rifiuto del distacco, la spontaneità dell’analista.
Letto retrospettivamente, si ha forse l’impressione che il riferimento al controtransfert, negli anni e nella diffusione della divulgata psicoanalitica sia letteralmente diventata impadroneggiabile rispetto alle prime teorizzazioni.
A cominciare dagli anni ’50 si verifica una riscoperta del controtransfert. Una distinzione tra il primo e il secondo uso della nozione di controtransfert riguarda, ancora una volta, la posizione in cui l’analista si colloca per rispondere alla domanda dell’analizzante.
L’uso che abbiamo denominato estensivo del controtransfert tende a riassumere in una sorte di intervento diretto, poco mediato, sostanzialmente speculare che l’analista svolge nei confronti dell’analizzante.
Un secondo uso del controtransfert tende a configurarlo in relazione alle esigenze cliniche poste dal trattamento: esso ha dunque una valenza prettamente tattica.

La persona dell’analista si fa, in tal caso, duttile strumento al servizio della cura.



Un concetto elaborato da Lacan, che risulta antagonista a quello di controtransfert: quello di desiderio dell’analista.
È possibile distinguere in Freud due diverse elaborazioni del tema del desiderio. La prima rinvia direttamente al suo desiderio specifico, personale, coglibile su un piano psicologico.
Il desiderio di Freud non è tuttavia il desiderio di “freud analista”; l’interesse per il sapere avrebbe potuto, d’altronde, portarlo in altri lidi.
Il desiderio è mancanza, ma mancanza oggettivabile, pena la sua riducibilità al bisogno; è mancanza a essere, il che significa, o comunque comporta, una certa mancanza d’essere, una sorta di sradicamento che l’analista è chiamato a sostenere e ad abitare.
La questione del desiderio dell’analista tocca a tutti gli effetti un punto di convergenza tra l’analista e l’analizzante, giacché riguarda, negli esiti di un percorso di cura, non solo quel che l’analista vuol fare con il suo paziente, ma altresì ciò che l’analista intende o permette che il suo paziente faccia di lui.
Lo sforzo di Lacan è volto a rompere con le psicologizzazioni entro cui si tende a rinchiudere il desiderio.
L’inizio di una cura vede un individuo sofferente bussare alla porta di un altro individuo, esercitante una professione non comunque quella dell’analista, sarà solo alla fine di questo tragitto che il paziente potrà testimoniare in maniera più o meno efficace del suo percorso analitico o di quanto effettivamente analitico c’è stato nel suo lavoro.
E’ una verifica a posteriori, in grado di dire qualcosa della realtà di una cura, ma anche dell’analista, o più precisamene della sua qualità analitica.
 
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